Psicofarmaci

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Si definiscono «psicofarmaci» una serie di composti, appartenenti a classi chimiche diverse, che sono utilizzati nel trattamento dei disturbi psichici. Rientrano in questa categoria farmacologica: gli ansiolitici-ipnotici, gli antidepressivi, gli antipsicotici e gli stabilizzatori dell'umore. La psicofarmacologia è il ramo della farmacologia che studia su base sperimentale e clinica l'azione degli psicofarmaci. La nascita della psicofarmacologia come scienza risale agli inizi degli anni '50 con la scoperta per serendipity delle proprietà antipsicotiche della clorpromazina (Largactil), da parte di due ricercatori clinici francesi (T. Delay e P. De-niker). Nel i960 veniva sintetizzato e commercializzato l'aloperidolo (Serenase), un antipsicotico appartenente a una nuova classe chimica (i butirrofenoni), ancora oggi largamente utilizzato nella pratica psichiatrica. Negli anni '50 erano state anche evidenziate le proprietà antidepressive dell'isoniazide, farmaco utilizzato come antitubercolare e capostipite degli antidepressivi appartenenti alla classe degli Imao (inibitori delle mono-amino-ossidasi). L'introduzione della prima benzodiazepina, il clordiazepossido (Librium), risale invece agli inizi degli anni '60, e segna l'avvio di una frenetica sintesi di ansiolitici-ipnotici, dimostratisi peraltro sostanzialmente equivalenti per efficacia e tollerabilità. Nel 1957 viene anche utilizzato (dallo psichiatra svizzero R. Kuhn) il primo antidepressivo triciclico, l'imipramina (Tofranil), destinata, insieme ad altri triciclici, a sostituire negli anni successivi gli Imao. Solo negli anni '80, con la sintesi del primo Ssri (selective serotonin reuptake inhibitors), la fluoxetina (Prozac), si assiste a un sostanziale cambiamento, anche a livello internazionale, nei pattern di prescrizione degli antidepressivi, con un progressivo incremento degli Ssri a spese dei triciclici. Negli anni '90, con l'introduzione della clozapina (Leponex) e successivamente del risperidone (Risperdal) e dell'olanzapina (Zyprexa), inizia la sperimentazione clinica su larga scala dei nuovi farmaci antipsicotici, che negli ultimi anni (2003-2004)

rappresentano nel nostro paese circa il 45% delle prescrizioni di antipsicotici. Pur essendo inizialmente ritenuti di competenza specialistica, gli psicofarmaci, in particolare gli ansiolitici-ipnotici e gli antidepressivi, sono oggi prescritti anche dai medici di medicina generale. Secondo alcuni dati in Italia dal 15 al 30% dei pazienti riceve la prescrizione di uno psicofarmaco dal proprio medico generale. Il fatto che si prescrivano psicofarmaci nella medicina generale è comprensibile se si tiene conto che anche in questo contesto sono visti e trattati una buona parte di pazienti con disturbi ansioso-depressivi anche di una certa rilevanza clinica. Sebbene la competenza dei medici di medicina generale nel riconoscimento e trattamento dei disturbi psichici sia maggiore che in passato, non sempre tali disturbi sono adeguatamente riconosciuti e trattati (Piccinelli et al., 1998; Balestrieri et al., 2004). Studi di drag epidemiology hanno, infatti, rilevato la presenza di malpractice nella prescrizione di tali farmaci (ad es. dosaggi inadeguati, periodi di trattamento troppo brevi o eccessivamente prolungati) sottolineando, come in altri settori della farmacoterapia, la necessità di fornire ai medici un'informazione aggiornata, continua e indipendente per garantire un pratica in linea con le attuali linee guida. Queste raccomandazioni, peraltro, sono applicabili anche a livello specialistico, dove pure sono stati rilevati fenomeni di malpractice (ad es. politerapie non giustificate, associazioni tra principi attivi equivalenti, indicazioni non adeguate). Va, tuttavia, osservato che nel campo della psicofarmacoterapia sono numerosi i quesiti ancora aperti e che le stesse linee guida non sono sempre in grado di fornire indicazioni sufficienti per far fronte alla complessità delle situazioni cliniche che si incontrano in condizioni di routine. La prescrizione e il consumo di ansiolitici-ipnotici e antidepressivi, negli ultimi due decenni, sono sensibilmente aumentati nei paesi industrializzati. Questo incremento potrebbe verosimilmente essere legato sia alla maggiore capacità dei medici generali di riconoscere e trattare autonomamente i disturbi ansiosi e/o depressivi, un tempo forse erroneamente attribuiti ad altre patologie e di conseguenza trattati con prodotti commerciali di dubbia efficacia terapeutica, sia alla disponibilità di molecole più maneggevoli e sicure; va anche considerata a questo proposito la maggiore promozione dei nuovi psicofarmaci (soprattutto antidepressivi) da parte dell'industria farmaceutica, a livello della medicina generale e specialistica. Un'indagine condotta in Italia nelle farmacie comunali ha documentato che il 32% delle prescrizioni di antidepressivi sono effettuate dai medici di medicina generale su propria iniziativa, il restante essendo prescritto su indicazione specialistica di psichiatri e neurologi (Balestrieri et al., 1992). I primi farmaci ad essere utilizzati a scopo ansiolitico e ipninducente sono stati negli anni '40 i barbiturici, sostituiti per la scarsa tollerabilità e tossicità da sovradosaggio, dal mebrobamato, introdotto negli Usa nel 1955. Agli inizi degli anni '6o erano commercializzati il clordiazepossido e il diazepam, capostipiti di una nuova classe di ansiolitici, le benzodiazepine (Bdz), ancora oggi considerate i farmaci di scelta per il trattamento a breve termine dei sintomi ansiosi e dell'insonnia.

Le Bdz sono una classe abbastanza omogenea di composti che agiscono a livello del sistema nervoso centrale «potenziando», attraverso l'azione su specifici recettori, la trasmissione del Gaba, un neuromodulatore ad attività inibitoria su altri neurotrasmettitori. Il meccanismo comune attraverso cui si realizza l'azione delle Bdz è rappresentato da un «rallentamento» della neurotrasmissione a livello delle aree limbiche e corticali (Brunello et al., 2003). Le Bdz si distinguono secondo il tempo di eliminazione (emivita plasmatica) e il tipo di metabolismo epatico in Bdz ad emivita medio-lunga (ad es. diazepam), breve (ad es. lorazepam) e brevissima (ad es. triazolam). Gli effetti indesiderati più comuni sono la sedazione eccessiva, la diminuzione della performance psicomotoria e cognitiva e l'astenia. L'assunzione a scopo ipnotico può determinare il mattino successivo senso di stordimento, cefalea, malessere generale e sintomi simili ai postumi di una sbornia (effetto hangover); meno comuni sono i disturbi della memoria, come l'amnesia anterograda, cioè la perdita di ricordi per gli avvenimenti trascorsi poi e prima dell'assunzione del farmaco. L'uso prolungato può indurre dipendenza fisica e l'insorgenza di una «sindrome da sospensione» qualora si sospenda bruscamente l’assunzione. Sono ritenuti fattori di rischio per la dipendenza, la lunga durata del trattamento e l'impiego di dosaggi elevati. Le Bdz sono farmaci sicuri in caso di sovradosaggio che, tuttavia, può risultare letale con l'assunzione contemporanea di alcolici o farmaci che deprimono il sistema nervoso centrale (Bellantuono e Balestrieri, 2003). Gli antidepressivi sono farmaci, appartenenti a classi chimiche diverse, che agiscono a livello del sistema nervoso centrale sui complessi meccanismi che regolano la trasmissione della serotonina e della noradrenalina. Gli antidepressivi (ad eccezione degli Imao) inibiscono la ricaptazione dei suddetti neurotrasmettitori all'interno del terminale presinaptico, determinando un accumulo degli stessi nello spazio sinaptico e impedendo in tal modo la loro metabolizzazione intraneuronale. Questo accumulo di neurotrasmettitori indurrebbe, secondaria mente, importanti modificazioni intracellulari che «normalizzerebbero» la neurotrasmissione serotoninergica e/o noradrenergica. E’ stata anche ipotizzata un'azione degli antidepressivi sui meccanismi di trasduzione intracellulare e un'attività «neurotrofica» a livello dei neuroni corticali (Brunello et al., 2003). Per questa ragione s'ipotizza che la base biologica della sintomatologia che caratterizza uno stato depressivo possa essere mediata da un'alterazione della trasmissione di questi neurotrasmettitori. I primi farmaci ad essere impiegati nella terapia della depressione sono stati gli Imao (fenelzina, tranilcipromina), impiegati per circa vent'anni, ma progressivamente abbandonati per la loro scarsa tollerabilità e maneggevolezza (rischio di gravi crisi iper-tensive per interazioni con alimenti contenenti tiramina) e sostituiti dai triciclici, farmaci di efficacia superiore ma con problemi di maneggevolezza e tollerabilità, soprattutto nei trattamenti ambulatoriali. Gli effetti indesiderati più comuni sono infatti direttamente correlati alla loro attività anticolinergica, antistaminica, adrenolitica e chinidinosimile e comprendono ipotensione nitostatica, tachicardia, stipsi, ritenzione urinaria, aumento ponderale, alterazioni della sfera sessuale.

Gli antidepressivi triciclici, che hanno rappresentato fin verso la metà degli anni '80 il trattamento di scelta dei pazienti con disturbi depressivi, sono oggi meno utilizzati essendo stati in buona parte sostituiti dagli Ssri (fluoxetina, fluvoxamina, paroxetina, sertralina, citalopram). Gli Ssri presentano il vantaggio rispetto ai triciclici di una migliore tollerabilità e sicurezza in caso di sovradosaggio. Possono, tuttavia, indurre effetti indesiderati legati alla loro attività di stimolazione della trasmissione serotoninergica (nausea, alterazioni della sfera sessuale, tremori, gastralgia, cefalea). Sebbene altre molecole siano state successivamente introdotte nel mercato degli antidepressivi (ad es. venlafaxina, mirtazapina, hupropione, escitalopram, duloxetina), non si sono in realtà evidenziati sostanziali vantaggi, in termini di efficacia, rapidità d'azione e tollerabilità complessiva, tra queste molecole e gli Ssri. L'uso degli antidepressivi è indicato solo nelle condizioni di depressione persistente e di una certa gravità clinica in cui sia significativamente compromessa la funzionalità sociale e lavorativa di una persona (depressione maggiore). Non tutti i pazienti migliorano dopo un trattamento antidepressivo, anche se condotto correttamente; la percentuale di coloro che presentano una remissione completa dei sintomi si aggira intorno al 50%, mentre in un 30% la remissione è solo parziale, con persistenza di «sintomi residui». Nei pazienti in cui la depressione presenta un'elevata tendenza alle ricadute (depressioni ricorrenti) potrebbe essere indicato un proseguimento della terapia per alcuni anni e talora anche per tutta la vita (Bellantuono et al., 2003). Tra gli antidepressivi, Ssri e clomipramina

sono consigliati, in associazione a interventi di tipo psicologico, anche nel trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo e del disturbo da attacchi di panico. L'uso di antidepressivi in condizioni depressive riscontrabili in età pediatrica è, invece, molto controverso e necessita di essere ulteriormente valutato.

Gli antipsicotici tradizionali, o neurolettici, comprendono farmaci appartenenti a classi chimiche diverse (ad es. fenotiazine, butirrofenoni,tioxanteni, benzamidi) che agiscono a vari livelli del sistema nervoso centrale, rallentando la neurotrasmissione dopa-minergica, attraverso il blocco di specifici recettori. Il blocco dei recettori dopaminergici, in particolare dei DA2, a livello del sistema mesolimbico e mesocorticale, viene ritenuto rilevante per l'attività antipsicotica, mentre quello a livello nigrostriatale e tubero-infundibolare è ritenuto responsabile di effetti indesiderati neurologici (a livello del sistema extrapiramidale) ed endocrini (a livello dell'adenoipofisi) (Brunello et al., 2003). Altri effetti indesiderati degli antipsicotici tradizionali sono legati all'attività anticolinergica, adrenolitica e antistaminica. I primi antipsicotici impiegati nel trattamento della schizofrenia e di altri disturbi psicotici (ad es. mania acuta) sono stati la clorpromazina e l'aloperidolo. La loro introduzione è stata successivamente seguita dalla sintesi di altre molecole (flufenazina, tioridazina, clotiapina) che, tuttavia, non hanno apportato rispetto ai farmaci capostipiti alcun vantaggio in termini di efficacia e tollerabilità (Imperadore et al., 2003). Gli antipsicotici tradizionali sono risultati efficaci soprattutto nel trattamento dei sintomi positivi della schizofrenia, mentre hanno dimostrato scarsa capacità di incidere sui sintomi negativi, affettivi e cognitivi, che anzi possono ulteriormente peggiorare in seguito al trattamento prolungato con tali composti. A fronte della loro capacità di controllare o attenuare i sintomi positivi, almeno nel 70% dei pazienti trattati questi farmaci possono indurre effetti indesiderati sgradevoli, spesso responsabili della scarsa adesione al trattamento. Quelli più comuni sono i disturbi extrapiramidali (Eps), che colpiscono dal 50 all'80% dei pazienti trattati e possono risultare irreversibili anche dopo la sospensione del trattamento. Gli Eps, rappresentati da distonie muscolari, acatisia, parkinsonismo e discinesia tardiva (incidenza/anno del 5%, negli anziani del 30%), sono disturbi abbastanza invalidanti oltre che stigmatizzanti per molti pazienti trattati ancora oggi con questi composti. Altri disturbi comuni con gli antidepressivi tradizionali sono Piperprolattinemia, che può determinare amenorrea, galattorrea (nella donna) e gine-comastia, e impotenza (nell'uomo); l'aumento ponderale e i disturbi cardiovascolari (ipotensione ortostatica e aritmie). I nuovi antipsicotici (clozapina, risperidone, olanzapina, quetiapina), denominati anche «atipici» o «di seconda generazione», presentano un meccanismo d'azione a livello del sistema nervoso centrale alquanto diverso dai tradizionali: minore blocco dei rettori DA2 a livello nigrostriatale e maggiore blocco dei recettori serotoninergici (5HT2a) a livello corticale. Gli effetti indesiderati più comuni, diversi secondo il farmaco considerato, comprendono: aumento ponderale (frequente con clozapina e olanzapina); l'iperprolattinemia (frequente con risperidone); l'ipotensione (frequente con quetiapina e clozapina). Tutti questi farmaci hanno come caratteristica importante la bassa capacità di indurre Eps e discinesia tardiva (la cui incidenza/anno è intorno all' 196). Gli antipsicotici atipici, ad eccezione della clozapina, da impiegare per la scarsa maneggevolezza e tollerabilità solo nei pazienti schizofrenici «resistenti», dovrebbero essere impiegati, per la loro bassa incidenza di Eps soprattutto nei primi episodi psicotici, nei trattamenti a lungo termine e nei pazienti anziani o a rischio di Eps. La terapia antipsicotica necessita, qualunque sia il composto utilizzato, di essere affiancata da strategie terapeutiche di tipo psicologico, riabilitativo e sociale, in particolare nei pazienti dove la remissione dei sintomi non è sufficiente per consentire un'accettabile qualità di vita. E’’ documentato da studi epidemiologici, oltre che dall'esperienza clinica, che gli antipsicotici (di primi e seconda generazione) sono in grado di migliorare solo parzialmente il decorso e l’esito complessivo della schizofrenia e delle psicosi correlate.

Gli stabilizzatori dell'umore sono una classe eterogenea di farmaci appartenenti a classi chimiche diverse. Il capostipite è il litio, introdotto dallo psichiatra australiano J. Cade, che nel 1949 lo utilizzò in dieci pazienti maniacali, dopo aver constatato le sue proprietà «sedative», mentre conduceva studi sul rapporto tra metabolismo purinico e comportamento animale. Nel 1954 venne pubblicato, ad opera del danese M. Schou, il primo studio su 38 pazienti maniacali. Dopo essere stato oggetto di ulteriori studi, sia in Europa che negli Stati Uniti, il litio fu in tradotto nella terapia della psicosi maniaco depressiva agli inizi degli anni '70. La terapia con sali di litio (in particolare il carbonato di litio) è oggi consigliata sia nella fase acuta della mania che nella prevenzione delle ricadute del disturbo bipolare. Anche con il litio si deve registrare, tuttavia, una quota di soggetti bipolari (dal 30 al 40%) che non rispondono o rispondono solo parzialmente nelle fase di acuzie e nei trattamenli di mantenimento. Gli effetti indesiderati più comuni a concentrazioni terapeutiche (litiemia tra 0,6 e 1,2 mEq/l) sono rappresentati da lievi tremori alle mani, sete intensa e aumento della diuresi; più raramente sono stati riportati, dopo uso prolungato, gozzo, ipotiroidismo, diabete insipido renale. L'intossicazione da grave sovradosaggio (litiemia oltre i 4 mEq/1) può risultare fatale per la comparsa di gravi disturbi cardiaci (aritmie) e neurologici (stati confusionali e convulsioni).

Dopo l'introduzione del litio, anche la carbamazepina e il sodio valproato, farmaci utilizzati come anticonvulsivanti, furono studiati nei pazienti bipolari per valutarne l'efficacia a breve e lungo termine. Questi farmaci sono proposti nei pazienti intolleranti o che dimostrano una scarsa risposta al litio, anche se la documentazione sulla loro efficacia a lungo termine per prevenire le ricadute nel disturbo bipolare necessita di ulteriori conferme. Di recente, sono stati proposti, in alternativa ai classici stabilizzatori dell'umore, alcuni nuovi antipsicotici (olanzapina, quetiapina e risperidone) e un anticonvulsivante, la lamotrigina (solo nella terapia della depressione bipolare). L'efficacia terapeutica di questi «nuovi» composti, sebbene documentata al momento da alcuni

studi preliminari, necessita tuttavia di essere confermata da studi controllati soprattutto nei trattamenti a lungo termine. Gli stabilizzatori dell'umore richiedono una costante supervisione clinica, poiché possono indurre effetti collaterali di una certa rilevanza. In particolare, con carbamazepina (alterazioni della crasi ematica, induzione enzimatica di farmaci associati), con sodio valproato (alterazioni epatiche, aumento ponderale e inibizione enzimatica di farmaci associati), con lamotrigina (rush cutaneo e gravi alterazioni cutanee). L'individualizzazione del dosaggio rende, inoltre, indispensabile il monitoraggio delle loro concentrazioni ematiche, che devono essere mantenute entro un ben definito range terapeutico. Nonostante le evidenze di efficacia terapeutica, il complesso meccanismo farmacologico attraverso cui i diversi stabilizzatori normalizzano le oscillazioni dell'umore nei pazienti bipolari non è al momento ben conosciuto.

CESARIO BELLANTUONO